La disoccupazione dei professionisti.

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La disoccupazione dei professionisti diventa problema serio. Gli stessi professionisti chiedono di poter regolarizzare la posizione dei giovani. In medicina veterinaria è un problema che sentiamo da tempo, ma gli appelli ad una scelta oculata del percorso di laurea, che eviti futuro incerto, sono stati sempre ampiamente disattesi. Perciò il nostro settore soffre anche più degli altri questa congiuntura economica negativa.

Gaetano Stella di Confprofessioni lancia un appello per l’assunzione dei giovani, evidenziando la difficoltà di affrontarne i costi. “Mediamente, -scrive- la paga base di un dipendente di IV livello è pari a 1.333 euro lordi mensili per 14 mensilità (lo stipendio lordo annuo è di 25.658 euro). Il netto mensile in busta paga scende a 1.035 euro, mentre il costo totale dell’azienda è di 2.343 euro al mese. La differenza tra il costo azienda e lo stipendio netto è di circa 1.300 euro al mese. In pratica, in un anno di lavoro, un giovane dipendente di 28 anni versa nelle casse dello Stato oltre 18 mila euro che se ne vanno tra tasse e contributi.”

Nella professione veterinaria molti colleghi sono associati in strutture di varie dimensioni, altri ancora operano come consulenti in più realtà, ed altri ancora lavorano sempre nella stessa struttura, fatturando unicamente alla medesima la propria prestazione. Difficile trovare veri e propri dipendenti: con un reddito medio di categoria che è un quarto di quello dei medici di umana, c’è poco da rosicchiare. Eppure qualche riflessione andrebbe fatta su questa situazione ed il sindacato intende lanciare il sasso senza nascondere il braccio.

In primo luogo abbiamo denunciato più volte lo sfruttamento. Invochiamo regole per un tirocinio post-laurea propedeutico all’abilitazione che stabilisca con chiarezza dei paletti, sia in termini di durata temporale che di status lavorativo. Perché un ostacolo alla possibilità concreta di far muovere i primi passi ad un collega resta la sua equiparazione ad un dipendente dal punto di vista della sicurezza del lavoro, con una cascata di adempimenti strutturali e normativi che non agevolano certo il percorso. Paradossalmente l’incertezza di un periodo di tirocinio mai nettamente definito rende possibili situazioni di colleghi chiamati a pagare per imparare; magari sotto forma di affitto dell’alloggio o retribuiti un paio di euro all’ora per fare le notti. E fin qui potremmo restare nell’alveo della concorrenza più o meno leale, senza i vincoli che l’autonomia professionale impone ad altre categorie, cui non è consentito per alcun motivo avere un rapporto di lavoro dipendente, pena l’esclusione dall’albo. Per le professioni sanitarie esercitare l’ars medica, richiede l’iscrizione all’Albo, in ogni caso.

Vi è poi l’aspetto previdenziale. Permangono situazioni paradossali, come quella dei ricercatori con borsa di studio, costretti a versare contributi da due parti senza possibilità di ricongiungerli.

Il dipendente ha i contributi versati dal datore di lavoro all’INPS. Se dunque si dovesse delineare uno scenario occupazionale di stampo nord-europeo, dove i veterinari sono spessissimo assunti in strutture complesse o, più semplicemente, il mercato evolvesse verso attività articolate e multi-servizi, potremmo ipotizzare un numero ridotto di datori di lavoro iscritti all’ ENPAV, o addirittura strutture gestite da società che nulla avrebbero a che fare con il nostro ente di previdenza, ed una maggioranza di dipendenti assoggettati al sistema pensionistico pubblico. Realtà futuribile di cui potremmo cogliere dei segnali, se volessimo, già nelle prestazioni erogate senza contributo previdenziale, camuffate da “onlus”, da “ospedaliere” o da quanto l’italico ingegno partorisce.

Certamente una riduzione di contributi all’ente pensionistico di categoria non rappresenta una rosea prospettiva per la sostenibilità. Potrebbe anche rivelarsi un vero e proprio ostacolo, tale da consolidare l’attuale situazione di precarietà, borderline nell’inquadramento occupazionale. La bassa contribuzione determinerà anche assegni futuri inadeguati alle esigenze del costo della vita, ed una prevedibile ritrosia a lasciare definitivamente la professione. Continuare ad esercitare integrerebbe il reddito, ma avrebbe la logica conseguenza di non liberare alcuno spazio a nuovi ingressi nel mercato del lavoro.

Ovviamente tutti noi vorremmo regole semplici, chiare e trasparenti. Se un comportamento è lecito lo sia per tutti e basta: senza serie A che approfitta e si arricchisce, e serie B che paga e tace. Pena un mercato dei servizi professionali distorto, materia da Antitrust.

Dobbiamo interrogarci su quale sia la scelta più opportuna nell’interesse generale, tra un reddito basso e diffuso, ed uno più selettivo e dignitoso. Piero Angela spiegava in una trasmissione che il welfare ha poco più di un secolo; è una novità da studiare con attenzione e non è detto che sia sostenibile a qualsiasi condizione. Certamente i tempi ci insegnano che non sono argomenti da lasciare alla dea bendata: la realtà presto o tardi presenta il conto ed il miglior auspicio sarebbe un dibattito costruttivo e propositivo per la categoria, la società e la politica.

Angelo Troi

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