Responsabilità professionale nell’attività veterinaria

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La Corte d’Appello di Milano, con una recente pronuncia, ha accolto l’impugnativa proposta dal medico veterinario ritenendo coerente con la legge nazionale l’applicazione da parte di un veterinario della normale professionalità. Al veterinario era stata richiesta l’asportazione chirurgica di una formazione nodulare cutanea dal collo di un cane pechinese. Purtroppo si era verificato un arresto cardiocircolatorio, benché l’intervento fosse stato anticipato da una visita anestesiologica (seppur priva di accertamenti diagnostici strumentali).

La Corte esclude una responsabilità del professionista per due ordini di ragioni (leggi la sentenza completa). In primo luogo, in quanto l’esecuzione di ulteriori accertamenti diagnostici strumentali (in quel determinato caso e per quell’animale) non costituisce un obbligo assoluto o uno standard legale di cura, essendo “un dato oggettivo che la maggior parte degli interventi chirurgici di routine su animali giovani e sani in Italia vengono eseguiti facendo precedere l’anestesia generale da una semplice visita clinica”. Inoltre, la Corte sottolinea -quale seconda ratio del decidere- non vi sono elementi per considerare probabile “in base al criterio della “preponderanza dell’evidenza” che una diversa condotta del professionista, in rapporto alle condizioni dell’animale nella loro irripetibile singolarità, avrebbe potuto scongiurare il decesso dell’animale.”.

 Il Tribunale quindi ribadisce che l’esecuzione di esami diagnostici va valutata in stretta correlazione con lo stato del singolo animale ed in rapporto alla loro capacità di predire in concreto eventi di fatto,  aItrimenti  non scongiurabili.

La decisione assunta dal collegio giudicante è oltretutto apprezzabile in quanto si pone in contrasto con la generale tendenza alla “medicina difensiva”, che a volte parrebbe destinata a creare un sistema inapplicabile in veterinaria. Essa prevede, in ultima analisi, un concetto di “sanitario diligente” se esegue un numero rilevante di costose indagini diagnostiche, prescindendo dalla loro utilità e reale validità in relazione al caso concreto. In umana questo si è trasformato in un evidente problema della medicina, tanto grave da rendere difficile, quando non impossibile esercitare la professione ippocratica. La veterinaria, che a volte pare non capire o non voler capire che un sistema già dimostratosi disastroso non è auspicabile, crede forse di conseguire un vantaggio seguendo una via analoga, senza considerare che può – continuamente e quasi infinitamente – essere richiesto un livello più elevato, in caso di conflittualità.

È auspicabile che l’indirizzo giurisprudenziale milanese abbia seguito perché le realtà in cui operano i veterinari non sono uniformi, né riguardo ai comparti sociali, né alle specie animali su cui interveniamo e tanto meno al genere di strutture, inevitabilmente diverso in aree diverse del territorio nazionale.
Angelo Troi – Segretario SIVeLP

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